“Occhi dentro occhi, mani dentro mani,
bocca dentro bocca” l’illusione di aver trovato un posto magico in cui
respirare dalla stessa pancia è roba da innamorati Penelope. È capitato a
tutti, a te , a me, al mondo là fuori. Eppure, la certezza di potersi fidare ed
affidare all'altro è davvero un posto che non c’è, come dice la canzone dei
Negramaro sottolineando la realtà di tutti gli amori anche quelli più belli e
sinceri.
Il luogo illusorio della non separatezza non cerchiamolo dentro
l’altro o assieme all'altro. Credo davvero non esista più quel luogo mitico di
unione e fusione che è stato nostro all'origine e poi mai più.
Ognuno ha un posto dentro sé con cui deve
farei conti, ma solo. Oserei dire “indissolubilmente solo”.
Parlo spesso delle donne,
Penelope, l’universo a cui appartengo e a me più famigliare ed affine. L’unico attraverso
il quale intravedo un varco di comprensione verso il maschile e il solo al cui
interno possa sentirmi “tenuta” e sostenuta.
L’altra parte dell’emisfero è maschile,
paterna, virile. Altro da me.
Parto dall'uomo per eccellenza di
ogni donna; il padre.
Riappropriarsi della memoria dei
padri, perduti e non, è un passo fondamentale per ogni donna che desideri
giungere ad una corretta visione del suo rapporto con il maschile. Corretta? Ma
che dico? Accettabile e consapevole. Non potrà mai esserci il modo esemplare
per amare o farsi amare perché veniamo da madri e padri imperfetti che, a modo
loro, arrancando faticosamente, hanno cercato di “tenerci” perpetrando continui e inconsapevoli abbandoni. Non so se
vale per tutti. Mi piacerebbe sperare che per i miei figli questa non debba
essere una dolorosa ovvietà ma, se devo dirla tutta, non ne sono convinta fino
in fondo. Eppure li amiamo, li amiamo
tanto. Credo che il segreto, se un segreto esiste, sia accoglierli, esserci,
amarli e confessare questo amore con passione, ogni giorno.
Infondo è questo che avremmo desiderato. Chi se ne frega dei genitori
“corretti” o falsamente perfetti, li avremmo voluti solo “innamorati” di noi. E
a modo loro lo sono sicuramente stati; a modo loro per l’appunto.
Sorrido e inorridisco davanti a
coloro che si sentono figli , genitori o esseri umani ineccepibili, immuni da “certe
scomode ferite” che poi, guarda caso, infliggono in modo seriale al prossimo.
Sono coloro che non trovano mai un posto perché credono di doverlo cercare
nell'altro o peggio ancora nel mondo ideale, quello dei sogni, quello che viene
a svegliarti e a dirti “seguimi, questa è la strada … tu non devi fare nessuna
fatica”.
Che figata! Dov'è questo posto
magico? Penelope dammi due sberle, svegliami e portami lì perché allora non ho
davvero capito nulla.
Questa storia che chi abbandona
non si sente in realtà abbandonato a sua volta ma solo più forte, davvero non
mi convince. La forza vera sta nel restare non nell'andare via, noi lo sappiamo
bene.
La mia amica dice che non c’è
differenza tra abbandonare e venire abbandonati: le ho chiesto di non spiegarmi
cosa intende perché ci sono vicina, ci sto arrivando da sola e non voglio
suggeritori. Solo se tocco con mano un traguardo questo mi appartiene davvero e
nessuno potrà più privarmi di tale conquista.
Senza sudore e lacrime non s’impara
nulla, si resta fermi come certe mamme davanti a scuola che credono che il
mondo finisca lì tra una crostata e il corso di tennis dei figli. Non sarò mai
solo quello. Devo rassegnarmi e, con me, anche i miei figli o chiunque mi
voglia “solo quella roba lì”.
Sono pronta a faticare per
comprendere il punto nodale che mi sfugge e non mi sottraggo all'indagine di
ciò che sembra ovvio e banale rifiutandomi di negare qualsivoglia verità a me
stessa asserendo “io con quella cosa lì
non centro nulla”. Ogni cosa ci riguarda
e da nulla siamo immuni soprattutto dalle false certezze che abbiamo bisogno di sventolare per sentirci
accettabili e saldi almeno davanti a noi stessi.
Nel frattempo vivo, incontro
persone, creo, m’innamoro, rivivo abbandoni o abbandono io per prima ritornando
incessantemente all'idea, sempre più
concreta, dell’inesistenza di “ quel posto che non c’è” in cui “tu hai mandato solo me”.
Ci si arriva da soli o con un bel
calcio nel culo ma quello è il traguardo a cui tutti giungiamo, lo dico senza
cinismo: c’è un luogo dentro noi in cui non c’è madre o padre ma solo il nostro
seme.
Ho scavato faticosamente là
infondo alla terra più nera e fangosa e sono arrivata nel punto più abissale in cui se lascio andare
il mio seme, e non quello di un uomo o di un padre, so che attecchirà.