Penelope,
è accaduta una cosa meravigliosa per una neofita della
scrittura come me. C’è qualcuno che ci osserva da lontano, legge e riflette
sulle nostre chiacchiere: un'accanita lettrice, come lei stessa definisce, mi
ha chiesto di soffermarmi sul tema appena accennato nel precedente post. Il
tema dell’attesa in amore, o meglio, l’attesa ha a che fare con l’amore? Questa
è la vera questione.
Non posso interrogare che te sull'argomento. In realtà t’interpello
senza sosta su molte questioni ma questa
è davvero la tua materia. Una donna che aspetta il ritorno del suo uomo per
oltre vent'anni non può farlo che per amore, un grande amore. Già perché, se proprio
ci si deve porre in uno stato di attesa, non lo si fa per un uomo qualunque ma
per colui che siamo certe di amare in modo pervasivo e totalizzante.
Credo d’immaginare cosa intendesse la mia lettrice quando mi
ha chiesto di approfondire il tema e provo a risponderle in questo modo:
Ho atteso, per gli anni
della mia fanciullezza, il momento della sera per poter chiudere gli occhi
prima di addormentarmi e sognare lui, il mio principe. Non era bello e nemmeno
mi si presentava innanzi con un cavallo bianco ma era incredibilmente
affascinante, avvolgente e sapeva di buono. Amava guardarmi negli occhi, leggere
oltre i miei confini e parlarmi d’amore con i suoi baci.
L’ho incontrato davvero
un bel giorno. Non eravamo ad un ballo ma ad una festa qualunque e non ho
dovuto scappare al rintocco della mezzanotte ma
solo salire su un muretto, uno di quelli freddi di cemento grigio e non ho perso la scarpetta
salendoci, mi sono semplicemente sbucciata un ginocchio. Lui era lì, mi ha
disinfettato la ferita, ha messo la musica nelle mie orecchie e cingendomi da
dietro, ha voltato il mio capo e mi ha dolcemente baciata. Poi, fermi e in
silenzio, abbiamo osservato la città dall'alto.
Eravamo giovani,
inesperti, con nessuna idea della vita e dell’amore.
Abbiamo imboccato la
coraggiosa via della vita insieme abbandonandoci l’uno all’altra con fiducia e
disarmante passione.
Tra questo bell’inizio
e il lieto fine della storia, mille sono le variabili dello sviluppo di un amore e altrettante le motivazioni che talvolta lo
conducono ad incagliarsi sui massi delle incomprensioni, delusioni, tradimenti
o semplici trasformazioni.
Il mio amore, cara
lettrice e adorata Penelope, si è incagliato sulla gigantesca montagna della
trasformazione, quella radicale di uno dei due componenti della coppia, quella
che, ahimè, non permette più all’altro di riuscire a tenere il passo. Perché
l’amore è anche questo, tenere lo stesso passo in due oppure attendersi a
vicenda in una danza continua. Prima uno e poi l’altro. Arrivo, abbi un po’ di
pazienza: tendimi la mano e sarò lì a breve. Mi aspetti? Ce la fai o scegli la
strada più semplice? La fuga, il tradimento o, peggio ancora, il restare
fintamente?
C’è chi attende l’altro
con pazienza, un po’ di sofferenza e molto amore. C’è chi sceglie vie più
comode e fugge in mille modi decidendo di preservare unicamente se stesso.
Entrambe le soluzioni portano ad un epilogo più o meno felice e sottintendono
ad una scelta ben delineata. In tali casi l’attesa, sia che venga attuata come
atto di volontà, di amore o di sottrazione di sé , si manifesta come una
possibilità che può essere scelta o negata.
Un solo elemento è in
grado di fare la differenza tra un’attesa sana e un’attesa vana: la consapevolezza.
Che l’attesa, qualunque sia il motore che la muove, non venga subita in modo
involontario ma sia, invece, attiva, fertile e portatrice di frutti, altrimenti
si tramuta in tempo sprecato e unicamente vissuto in funzione dell’altro.
Il mio amore, cara
lettrice, si è trasformato ad un certo punto nell’attesa di un qualcosa che non
esisteva più in quanto caduto in preda a trasformazioni ormai irrefrenabili. La
mia attesa è stata vana perché è durata troppo tempo ma soprattutto non vi era nulla,
nella realtà oggettiva dei fatti di quegli anni di attesa, che mi fornisse
appigli concreti per poter alimentare una simile speranza. Quando ti illudi di
trovare agganci in sguardi che non ci sono o in manifestazioni di semplice
affetto scambiandole per amore, è proprio lì che ti devi fermare. L’attesa del
nulla non porterà a nulla se non ad aggiungere dolore a dolore e disistima ad
un già bassissimo amore di sé.
Penelope, i
protagonisti della mia storia arrivano ad un punto in cui attendere significa
solamente vestirsi di viltà: uno attende che sia l’altro a smettere di
attendere l’inattendibile. Un gioco al massacro, oltre che un gioco di parole,
in cui il lieto fine è l’esatto contrario del “e vissero felici e contenti”.
Nessuno mai dovrebbe arrivare ad un tale punto di svalutazione del sé. Mai.
A te non è accaduto, la
tua è un’altra storia. L’amore non si è incagliato, si è semplicemente
allontanato. Ulisse ha scelto altro da te per vent’anni della sua e della
vostra vita insieme. Mosso dal suo senso dell’onore e della giustizia ti ha
detto un giorno:“Parto. Vado a combattere le mie guerre ma tornerò da te. Non
posso saper quando ma tornerò”.
Ti sarà preso un colpo
amica mia, puoi dirlo. Quale donna accetta un’affermazione del genere senza
battere ciglio? Il proprio amore lontano, chissà dove e chissà per quanto
tempo. Un incessante incedere di CHISSÀ. Un terreno incerto su cui decidere se
e come restare, con quali prerogative e soprattutto con quale fede.
Perché amare è un enorme
atto di fede e restare in attesa lo è due volte tanto. Per cui cara lettrice, per
attendere ci vuole coraggio ma soprattutto la capacità di saper guardare a
fondo la realtà, senza infiocchettarla con ciò che desidereremmo ma
semplicemente per quello che è.
La consapevolezza , ancora una volta, è la sola
che ci salva e ci guida nella possibile scelta di un’attesa. Vale la pena vivere
in attesa di un “Chissà quando?”
Oggi dico no.
A noi capita così
Penelope,
"Non vissero felici e
contenti ma consapevoli e interi!”