martedì 22 dicembre 2015

DONOPERDONO

Torna il Natale, Penelope mia, e con lui questo tempo dell’anno che amo definire “aperto”: una zona franca in cui tutto sembra essere concesso o così mi piace credere. Questi sono giorni in cui cediamo inevitabilmente il passo, al di là di ogni credo religioso o principio, alla dolcezza, alla tenerezza, ai vizi e alle coccole. Veniamo inspiegabilmente guidati da un calore senza pari che trasforma, in modo perlopiù illusorio, musi lunghi, durezze e noncuranze imposte dal nostro vivere sempre troppo frettoloso.
Non sono più una bambina, dolce amica mia, eppure oggi amo accogliere questa ricorrenza con gli occhi di una fanciulla che vive senza i filtri occultatori e ingannevoli della ragione e delle convenzioni. Negli ultimi anni mi sono pianta addosso sostenendo davanti a tutti e a me stessa di non amare più il Natale, vissuto erroneamente come l’icona sbiadita e illusoria della famiglia perfetta che credevo di possedere un tempo. Sono stata molto superficiale, Penelope, e dedita al vittimismo più bieco e decadente sperando di concentrare tutte le attenzioni su me stessa, sventolando ai quattro venti questa falsa verità. Oggi, però, sento di aver superato, anche se solo di qualche piccolo passo, il mio ego sabotante e sono pronta a colorare questi giorni con le tinte più autentiche di un’altra verità:
Amo il Natale e la malinconia che esso accende in me.  
Considero questa festa l’occasione, più democraticamente confezionata, per supplire ai vuoti e alle mancanze che ognuno di noi si porta dietro dai tempi dell’infanzia: a Natale, infatti, accadono fenomeni inspiegabili, piccoli miracoli che intiepidiscono anche i cuori più duri e incalliti. Le famiglie si riuniscono cercando, a volte goffamente, di ricostruire un’atmosfera conviviale e dedita al ricordo del passato, le incombenze lavorative assumono un ritmo più accettabile, le corse si arrestano e si può finalmente usufruire del dono più bello. Il tempo
Ci si ritaglia il tempo per cucinare insieme, per parlare, rivedere le proprie priorità, ascoltarsi e dare un bacio e un abbraccio "ben dati". Ricordo Natali passati a vedere un film con tutti i componenti della famiglia, a giocare a carte, a cercare le musiche che accompagnarono la giovinezza di nonni e genitori o a guardare quelle foto in cui ti rivedi figlia e nipote, non solo madre. Il riposo e la sosta rendono gli animi meglio disposti gli uni verso gli altri e il resto della magia natalizia rende più agevole l’incontrarsi, il donare, il ricevere e il perdonare. Questi sono gli aspetti che mi emozionano nel mio attuale Natale. 
Proprio in questi giorni ho letto “E' il perdono che ci rende unici”.
Questa frase era all'interno di un magistrale passaggio del libro Shantaram, di G.D. Roberts, cara Penelope, e non riesco a togliermela di mente, come se ci fosse una misteriosa energia che mi costringe a soffermarmi su questo complicato concetto di perdono che sento essere collegato in maniera inscindibile al dono.
Di cosa si tratta, mia regina dell’attesa misericordiosa? Realtà o utopia?
Questo passaggio è meraviglioso e lo trovo particolarmente adatto ai giorni che verranno:
“Senza perdono la nostra specie sarebbe distrutta in una serie di faide senza fine. Senza perdono non esisterebbe la storia. Senza la speranza del perdono non ci sarebbe l’arte, perché l’arte è in qualche modo un gesto di perdono. Senza il sogno di un perdono non ci sarebbe amore, perché ogni atto d’amore è in qualche modo una promessa di perdono. Viviamo perché possiamo amare, e amiamo perché sappiamo perdonare”.
La definizione di perdono è banalmente riassumibile nella cessazione di qualsiasi sentimento di risentimento nei confronti di un altro essere vivente che ci ha fatto un torto o di noi stessi. Si tratta di rinuncia alla vendetta e alla rivalsa in favore di un dono gratuito da elargire all'altro, a chi ci ha offeso. Ma non è tutto qui. Il perdono è molto di più; è un atto di pace, misericordia pura, un gesto d’amore che personalmente considero appartenente alla sfera divina più che a quella umana.
Eppure il passaggio nel libro non lascia adito a dubbi: la capacità di perdonare è la discriminante unica che caratterizza l’essere umano rispetto alle altre specie viventi. Sì insomma, ci differenziamo dai cani e dalle scimmie o dalle piante e dai fiori per la nostra unica e irripetibile capacità di perdono. 
L’etimologia della parola risiede nel DONARE PER: dare, elargire, concedere, offrire. Sì ma cosa? Cosa si dona all'altro attraverso questa nobile azione e rara capacità dell’animo?
Concedo forse il mio oblio, la cancellazione di ciò che è stato o la mia indifferenza? Se fosse così, sarebbe facile. Se ingoiassi e accettassi l’accaduto, un torto subito o un’ingiustizia, il perdono non risulterebbe un gesto poi così nobile. Tutto muta, invece, nel momento in cui riammetto l’altro, o addirittura me stesso, a far parte della mia stessa vita, concedendo una redenta seconda possibilità, dopo aver compreso, accettato e superato l’accaduto.
Il perdono presuppone un enorme lavoro su se stessi, cara Penelope, e solo dopo aver messo da parte l’ego, e aver compreso, pur senza dimenticare o accettare ciecamente, è possibile trasformare la rabbia e il dolore in dono per se stessi e poi per l’altro. Ecco allora che il dono, elargito a Natale o in qualsiasi altro momento dell’anno, diventa un gesto simbolico di concessione di una parte di sé che, dopo atroce sforzo, si decide di lasciar andare. Perdonare è lasciar andare via un pezzo di sé con l’altro per far posto al nuovo. Un dono, se fatto con amore, si trasforma in scambio, ricerca, attenzione e, sopra ogni cosa, incontro.
Chi non lascia andare mai nulla e trattiene rabbia, ricordi dolorosi e desiderio di vendetta, senza tentare una vera riconciliazione innanzitutto con se stesso, non otterrà mai nulla da donare gratuitamente e non possiederà l’umiltà necessaria nemmeno per ricevere e godere della bellezza di un dono. 
Chi non perdona è destinato a perdere e perderà. 
Chi non giunge al perdono compie, a propria insaputa, un’azione di distruzione impedendo qualsiasi tipo di costruzione o progetto.
Diglielo tu ai rancorosi e incapaci di perdono, dolcezza dai capelli di seta, urlaglielo in un sogno o mentre sono in coda nel traffico, fallo tu per me!
Poi riposati Penelope, ne hai bisogno.
Auguro a te, in questi giorni di magia, la gioia di molti incontri e a me la possibilità di elargire sempre più parti di quella fanciulla che danza in modo instancabile e fiero, indipendentemente dalla musica presente in sottofondo. 
Buon Natale Penelope!



sabato 5 dicembre 2015

CAPELLI DI SETA

Dea dai lunghi capelli di seta, oggi mi siedo accanto a te in un nido di muta sorellanza, e spazzolo con cura le tue lunghe ciocche. Tesserò la tua chioma, ne farò trama e ordito di un’anima che ogni giorno inesorabilmente si trasforma e cambia.

Nel nostro fitto silenzio, colmo di ogni parola, m’imbatto nei nodi della tua capigliatura e il pettine, a tratti, si arresta. Non vorrei farti male ma un lieve strappo e un piccolo dolore sono necessari per procedere oltre: utilizzo dell’olio come unguento per ammorbidire il passaggio del pettine ma non è sufficiente per anestetizzarti dal dolore. Stringi i denti e abbi un po’ di pazienza!

Mi rendo conto che una tale richiesta presuppone spalle larghe e capacità di accettazione pura oltre che una certa gratuità da parte di colui o colei a cui viene fatta tale preghiera ma a chi posso chiedere una tale virtù se non a te?

Ti chiedo di avere pazienza perché mi sono inceppata e rischio di aggrovigliarmi su nodi che potrebbero diventare matasse. Ci vuole strategia, amica mia dolcissima, ed io sto perfezionando la mia. Sono partita per un viaggio Penelope, un viaggio dentro me, attraverso i meandri più insondati del mio inconscio. Più volte mi sono avvicinata a certe energie senza mai avere il coraggio di andare oltre ma ora è diverso; la forza mi accompagna e non ho più paura di “vedere”. La mia miopia mi obbliga a guardare le cose da molto vicino altrimenti rischio di percepirle in maniera sfocata e approssimativa. Arriva il momento di abbandonare i colori della paura e disimpararne il linguaggio. Credevo di aver smesso quei panni e invece mi accorgo che sono sempre lì, buttati sul letto, pronti  per essere indossati.

La paura è connessa ai muri, amica mia. Muri innalzati dal tempo, durezze incancrenite dall'orgoglio, barricate che il silenzio ha reso apparentemente salde e inespugnabili ma che non hanno finalmente più alcuna ragione d’essere.

Ho sprecato giorni, dolce Penelope, anni della mia vita a recriminare, analizzare e credere di essere dalla parte della ragione e ora dico che è finito il tempo. Non ho più l’età per fare i capricci e tenere il broncio. Ho sempre rimproverato i silenzi, i non detti, gli ambigui allontanamenti e poi sono stata io la prima a non differenziarmi. Provo sincera pena per chi, come me, si è trincerato dietro i muri invece di prenderli a sassate per farli crollare. Mi sento debole e mancante, amica mia, e queste sono le ragioni dei miei blocchi, dei nodi tra i tuoi capelli, dell’incedere faticoso del pettine.

Corro ai ripari, magica presenza, e finalizzo tutta l’energia che riesco a generare dentro me per infiammare nuovamente il cuore di fuoco vivo e vero che possa contagiare quelli più atrofizzati e stanchi. Ti pettino dolce amica e i miei occhi sorridono al pensiero di noi due: in questi quarantadue anni abbiamo inconsciamente condiviso un susseguirsi di cicli in cui mente, anima e corpo si sono susseguiti in costanti alternanze di luci e ombre. E i cicli, cara amica, sottintendono sempre una finalità.

La mia era rinascere e, bene o male, l’ho fatto. Qual era la tua?

Io e te legate da un filo fatto di amore e odio, ai due estremi opposti, di abbandono e amore verso la parte più centrale del laccio che ci tiene unite. 

E se lo tagliassimo? Se avessimo il coraggio di prendere con audacia e autenticità ognuna la propria strada? Ci hai mai pensato?

Io sì.




martedì 27 ottobre 2015

LA STORIA DI UN PUNTO IMPERTINENTE

Nuova linfa scorre tra te e me, Penelope, ora che mi sono messa in ascolto. Dare voce a te è come attingere acqua da un bacino mai vuoto e nutrirmi di un cibo corroborante e colmo di energia rinnovata.

Percepisco la tua sfaccettata natura e sento il tuo grido di donna colma di intuizioni la cui attesa non è mortificante bensì vivida e fulgida: se non avessi davvero creduto in quell'attesa, durata vent'anni, te ne saresti andata. Ne sono certa.

Credo in una sorta di presagio della mente e, ancor di più, in quella dello spirito. Ho fede nelle profezie di quell'occhio dell’anima che, se allenato con esercizio costante, vede al di là del contingente e attinge la sua sapienza da un archivio universale e accessibile.

La mente si rafforza, lo spirito si struttura e il cuore canta ciò che è e che sarà, Penelope.

Non sono pazza. So che mi comprendi perché anche tu, senza follia alcuna bensì con determinata certezza, hai invocato le forze dell’Universo per il ritorno del tuo amato. Hai riposto la tua fiducia non direttamente in lui ma in ciò che ruotava intorno a lui e poi ci hai creduto. Un atto di fede il tuo.
Una tale prospettiva ha cambiato ogni cosa e ha dato un senso alla tua attesa colorandola di un alto significato che perdura tutt'oggi al di là del risultato. In altre parole, hai atteso per istinto, per passione e perché sapevi che quella, e lei sola, era la strada percorribile in quel momento della tua vita. Quando la motivazione è forte e profonda non ci sono venti o bufere che ci possano scostare dallo scoglio che abbiamo scelto. Restiamo lì, seppur colmi di paura, integri e pieni della nostra intima convinzione.

Il concetto di motivazione è ciò che attira la mia attenzione in questi giorni di fine ottobre.

Ciò che ci muove e conduce a compiere azioni apparentemente illogiche indirizzando le nostre vele in direzioni che nessuno comprende, se non noi stessi, racchiude in sé un mistero insondabile. Voglio arrivare all'origine del segreto. Sempre che sia possibile.

Per me, dolce amica, si tratta di una folgorazione, un’intima certezza che ci coglie in modo totale e perfetto in alcuni rari momenti della vita. Una sensazione di beatitudine assoluta a cui si giunge naturalmente dopo aver appreso la difficilissima arte dell’ascolto. In molte occasioni della mia esistenza mi sono ritrovata davanti ad un bivio, ad una risposta da dare, ad una decisione da prendere o semplicemente ad una scelta da compiere e in altrettante non mi sono ascoltata.  Ho vissuto per interposta persona, ho delegato le mie decisioni al giudizio altrui, mi sono appoggiata a qualcuno oppure ho proceduto con la testa, la razionalità.

Oggi, mi ritrovo a pensare di non aver mai davvero scelto o vissuto fino a che la motivazione di ogni mia azione è stata dettata da un agente esterno, da un consenso o da un incoraggiamento che non provenisse dal mio profondo. La motivazione, Penelope, quell'intima certezza che ti rende sicuro dei tuoi passi, è tale solo se proviene da un angolo buio e nascosto di te e ti fa brillare al solo pensiero di poterle dare fiato e spazio. Avanza sorda da quando sei venuto al mondo ma si scontra contro muri, vetri, montagne di convenzioni e finti assunti di vita. Sono i falsi dogmi educativi e culturali con cui cresciamo e senza i quali ci sentiamo persi e disorientati. Non importa se ci imprigionano e ci privano del vero significato della parola libertà che, come sentivo oggi nelle parole di una canzone, "è una parola semplice se non ne conosci il significato".

Ma poi, Penelope, per tutti, arriva un giorno. Arriva quel giorno in cui:

-          Ehi che ci fai qui?
-         Come che ci faccio qui?
-         Si dico qui. In questa casa dalle pareti bianche, senza colori. E i tuoi giochi? Dove li hai messi? Le bambole, i peluches, i dadi del gioco dell’oca …. dove sono finiti? Ne avevi scatole piene.
-         Ma per favore. Io ci vivo qui. Guarda che ho da lavorare, ho la mia famiglia, i figli. Cosa credi? Non ho tempo per giocare.
-         Uhm che tristezza. Non hai tempo per desiderare, direi io.
-       Guarda un po’ te che impertinenza! Ma chi sei tu? Da dove vieni e soprattutto come ti permetti di importunarmi?
-         Non importa chi sono
-         Si che importa. Da dove vieni?
-         Non importa da dove vengo anche se voglio svelarti un piccolo segreto.
-         Quale?
-          Vengo da te!
-         Da me? Non capisco
-          Si. Io sono un punto. Un semplice punto e provengo da te.
-         Questa è bella!
-        Non sai quante volte mi hai nominato, invocato e disegnato.
-        Io?
-       Si tu. Mi hai cercato incessantemente in tutti questi anni ed ogni volta che riuscivi ad individuarmi iniziavi a tirare una riga. Procedevi per qualche tempo in una direzione e poi….
-          E poi la piantavo lì. Vero?
-        Sì. Esatto. Smettevi di disegnare. Smettevi sempre anche quando la riga era diventata una curva e poi una figura. Abbozzavi e poi..
-         E’ vero! Cessavo nel bel mezzo del divertimento, senza sapere perché.
-        Mi abbandonavi. La mano era come atrofizzata e io vedevo il tuo sguardo velarsi e diventare opaco, come se qualcosa ti impedisse di vedere limpidamente.
-         E’ accaduto ogni volta in cui non ho creduto nel disegno in cui ti stavo trasformando. Partire da te, piccolo punto, è semplice ma proseguire arrivando fino al termine dell’opera non lo è altrettanto, credimi.
-         Cedevi la matita ad altri o non eri certo di ciò in cui volessi trasformarmi. Non sapevi cosa e perché.
-          Sì, non avevo il disegno ben chiaro in mente. Soprattutto non avevo fiducia nelle mie capacità artistiche. C’era sempre qualcuno più bravo di me. Capisci?
-          Intuisco il concetto. Ma ora basta recriminare. Sei pronto a tenere la matita in mano e non staccarti dal foglio fino a quando non avrai terminato?
-          Sì, credo di sì
-     Hai una motivazione valida per arrivare fino al termine del disegno?
-          Sì ed è proprio perché la conosco che… ti coloro di rosso.

Non smettere di tessere, Penelope.



domenica 18 ottobre 2015

UNA PAGINA BIANCA IN DONO

Penelope,

non troverò scuse per il mio silenzio. 

La verità è che il desiderio pulsante di raccontarti di me è venuto meno così come la volontà di renderti partecipe della mia vita, motivazioni che finora sono bastate per scrivere queste schegge di parole che vagano nel web. Ho finalmente raggiunto quella fase in cui non è più necessario condividere per sentirmi viva e apprezzata ma raggiungo appagamento e soddisfazione anche nella mia riservatezza e solitudine. Tu sei presenza e assenza, cara Penelope, specchio e luce, roccia e sabbia sfuggente ma io ho finalmente compreso di esistere e valere indipendentemente dalla mia presenza qui e da te. 

La mia tela colorata e preziosa sta per essere rimossa dal telaio che le ha dato vita per far brillare i suoi arcobaleni nelle stanze in cui verrà esposta. Non so ancora cosa significhi per noi tutto ciò, ma so di trovarmi in prossimità di un altro guado che apporterà cambiamenti e novità.

La mia personale concezione di condivisione sta variando in parallelo alle mie esperienze e alla mia crescita personale. Un tempo condividere implicava un insano egoismo di fondo che presupponeva l’ottenimento di un tornaconto in termini di consenso e visibilità. Si insomma, si può condividere per pura gioia e trasporto oppure per trarne vantaggio e avere un'approvazione senza la quale ho personalmente rischiato, per molto tempo, di sentirmi persa, vuota ed inutile. Purtroppo la condivisione finalizzata o indirizzata, cara Penelope, manca di autenticità e gratuità.

I nostri scambi, amica di molti giorni, sono stati funzionali alle mie esigenze: la tua presenza ieratica e silenziosa mi ha dato modo di esprimermi e ritrovarmi così come il tuo muto consenso. Mi hai messa in crisi con la tua storia, mi hai aiutata a distanziarmi da te e a trovare una mia personale direzione così come ad odiarti o ad amarti oltre ogni aspettativa. Sono stata te e altro da te; ti ho rifiutata, compatita, derisa, allontana e voluta al mio fianco e ho preso, preso e ancora preso in maniera incondizionata ed egoista. Ora basta. Nell'accezione stessa del termine “condividere”, il dare tiene per mano il ricevere, unici e inscindibili nutrimenti dell’amore e della libertà.

Si tratta di fili e di direzioni, di dritti e rovesci, di nodi e tagli che vanno apportati quando si crede di essere giunti ad un altro traguardo della propria vita. Un gradino sceso o salito, poco importa, ma un passo nella direzione della consapevolezza va sempre e comunque sancito con un patto, un segno, un simbolo. E allora oggi, cara amica silenziosa, io ti comunico che il mio traguardo è il cuore, l’amore vero e autenticamente ritrovato per me stessa, la consapevolezza sempre più lucida dei miei limiti e delle mie contrastanti e conviventi nature, la pacificazione con il passato e con chi mi ha generato, la piena presa di coscienza della solitudine umana come condizione privilegiata per qualsiasi tipo di viaggio. Il mio traguardo è l’amore, faticoso e screziato da mille sfaccettature che si nutre di realtà e di sogno al tempo stesso; l’amore che non rende vittime ma costruttori e protagonisti del proprio tempo, l’amore che è in grado di dare e di espandersi.

Questo è il mio attuale traguardo e voglio sancirlo con un patto: condivisione pura e scevra da qualsiasi ritorno o tornaconto personale. Ti rendo il favore, regina del telaio, promettendoti ascolto incondizionato, gratuità piena, autentica verità e partecipazione puntuale in queste pagine.

Tu sei il mio alter-ego, opposta a me eppure così simile, di cui oggi accetto forze e debolezze. Con amore.


Riscriviamo i nostri codici, ripartiamo da chi siamo oggi, consapevoli delle parole dure che ci siamo scambiate e assumendoci anche le responsabilità dei silenzi.

Ti dono una pagina bianca su cui sintonizzare le nostre nuove energie ed essere finalmente complici.





martedì 22 settembre 2015

TAGLIO BARBA E CAPELLI!

Amo le parole ma ultimamente tendo a pensare che ne vengano pronunciate e scritte troppe, su tutto. Sono io la prima a farne di inutili.

Mi ritrovo con sorpresa a godere della semplificazione, dell’abbattimento delle barriere che troppe parole, inevitabilmente, creano. Sì insomma, contro ogni aspettativa, credo nel decluttering intensivo e continuativo delle cose, delle parole e dei pensieri inutili.

Facilitiamo le cose Penelope!

Un caro amico, ieri, mi ha informata di aver rasato via tutto, barba e capelli, e alla mia stupida domanda “Perché?” mi ha risposto “perché rappresentavano il superfluo, ciò che non desidero più nella mia vita”. E alla mia piuchestupida obiezione “Si, ma stavi bene! Ti piaci ora?” lui risponde “Certo. Ci sono nato così”.

Nulla di più ovvio. Siamo nati privi di peli e orpelli ed è proprio quello stato primitivo di natura che dovremmo recuperare un po’ tutti e in tutti i sensi.

Siamo bombardati, ormai da tempo, dalla filosofia virtuale volta allo sbarazzarsi del superfluo per vivere meglio: ovunque si parla incessantemente di “decluttering”, di sgomberare gli spazi esterni e interni dalle zavorre per fare spazio al nuovo e ricollocare i vari elementi con un ordine dissimile al precedente.

Ma innanzitutto, Penelope, cosa è superfluo? E poi, serve davvero eliminare oggetti e pensieri per fare spazio al nuovo? Tu cosa hai gettato nel tuo percorso di vita e perché?

Credo che la concezione stessa di anima possa dare tutte le risposte.
Per anima intendo la parte vitale e spirituale di un essere vivente, l’IO, la coscienza, l’essere nella sua accezione più profonda.

Lasciandola decantare così come si fa con un buon vino d’annata, ossigenandolo per qualche istante, è l’anima stessa, la nostra essenza vitale, a mostrarci chiaramente cosa sia superfluo e cosa no. Quando si consapevolizza la presenza di questo particolare sensore dentro di noi la scelta diventa quasi obbligata e improvvisamente tutto ciò che non combacia con la sua natura diventa accessorio, inutile, da gettare via. E’ una questione di aderenza, o meglio, di coerenza istintiva. Esistono cose, situazioni e addirittura persone la cui presenza nella nostra vita diviene, ad un certo punto, innaturale e conduce all'inautenticità dell’essere o del rapporto stesso. Può trattarsi di un abito che non ci rappresenta più così come di un amico che non sentiamo più sintonizzato o di un amore che non trova più la vera motivazione del suo esistere.

L’anima ci manda mille segnali di insofferenza e un giorno, nel migliore dei casi, decidiamo di seguirli.

Concretizzare i dettami dell’anima è solo questione di coraggio e quest’ultimo affinché non diventi una chimera nella vita, va semplicemente allenato. Piccoli atti coraggiosi conducono a grandi gesta. Qualsiasi dettame giunga da meandri tanto profondi e innati non può che costituire la giusta direzione per la nostra nave.

Ti offro, cara Penelope, la possibilità di rileggere la tua storia alla luce dell’anima che, se nutrita e seguita, crea altra anima rendendo intrepido e mai noioso il nostro andare. Perché essa non segue le logiche della ragione ma solo quelle della natura, della terra e dei venti che agitano i mari. E a pensarci, la tua vita e quella del tuo sposo è stata ricca di accadimenti e audace come tutti vorremmo che fosse una vita.

La risposta del mio amico “Certo che mi piaccio. Sono nato così” traduce in modo semplice questo concetto di integrità e naturalezza che dovrebbe essere alla base di ogni nostra scelta. Tutto il resto appare inautentico, sleale e pertanto inutile proprio perché lontano dalle origini della nostra fonte e dalle viscere.

In verità, ho sempre trovato molto difficile sbarazzarsi e gettare via le cose, per natura sono una che “tiene” e ha una scarsa capacità nel lasciar andare le cose e ancor di più le persone. Soffro i distacchi e l’abbandono mio, degli altri o dagli oggetti a cui tengo è lo spettro contro cui combatto la mia personale lotta da quando sono nata. Eppure oggi, dopo un po’ di vita, ricerca e introspezione, giungo alla conclusione che i tagli, anche quelli che rimangono incisi dentro e sanguinano senza fine, siano necessari e salutari se supportati da una forte intuizione interiore, da un impulso leale. Spesso il dolore da essi generato è l’unica cura.

Leggo, Penelope, leggo molto per cercare risposte e rafforzare quelle piccole intuizioni che pian piano diventano certezze e questa frase che trovo in Donne che corrono con i lupi della Clarissa P. Estés mi dona aria per respirare quando serve:

“Ci vuole un cuore desideroso di morire e rinascere e morire e rinascere e così via”.

Perché abbandonare dietro di sé qualcosa o qualcuno è un po’ come morire ma senza quella ferita che impareremo ad amare e riconoscere non è possibile rinascere e guarire. Così come non può esserci vita senza la morte, non può esistere amore senza dolore e verità senza l’abbandono di ciò che vero non è.

Chi si taglia barba e capelli e interagisce finalmente con un volto sgombro e pulito mi ha fornito lo spunto per riconoscere l’importanza dell’operare nella vita liberi dagli ostacoli di qualsiasi natura senza nascondersi. Ci si deve ripulire, Penelope, dalle scorie che generano mancanza di vita e slancio puro, accettando il rischio di sentirsi nudi, spogli, senza barriera e difesa.

Barba e capelli folti mi riportano all'immagine di Ulisse.

Ma tu, intrepido eroe del mare, avresti il coraggio di tagliare tutto? 

Mostrati!

Penelope, ti passo le forbici.




venerdì 4 settembre 2015

INTERMEZZO: I 454.020 PASSI DI UNA PELLEGRINA COME TANTE

Penelope, in questo inizio di settembre, ti regalo i passi di una donna che ha camminato tanto. Ascoltala attraverso le sue parole che ho fatto mie.

“Quest’estate ho scelto di fare la pellegrina lungo il cammino di Santiago de Compostela.

Camminando la mia intuizione si è fatta avanti.

Passo dopo passo, la nebbia nella mia mente ha iniziato a dissolversi, il raziocinio imperante si è fatto da parte e ho potuto iniziare a guardare ogni ambito della mia esistenza come se fosse un quadro. Ne ho colto i colori, le sfumature, le luci e le ombre senza perderne la visione d’insieme, quel fil rouge che tutto lega e tutto comprende.

Camminare per 311,5 chilometri, distribuiti in undici giorni, ti cambia.

Provare dolore ai piedi, ai muscoli, alle articolazioni sino al punto da non riuscire a dormire la notte, aumenta in modo esponenziale la percezione del tuo corpo conferendogli il giusto posto all'interno di quell'illusoria visione che ognuno ha di se stesso.

Ora so che siamo carne e spirito, corpo e anima, poesia e lacrime.

Siamo un tutt'uno perfetto, energia intelligente ed esattamente funzionante simile a quella divina. Sì, parlo di Dio. Di lui sussurrano le strade polverose e assolate che ho percorso, la pioggia battente che mi ha sorpresa all'alba, le ore di veglia notturne e i dolori delle membra stanche e affamate solo di un semplice ristoro. Di un Dio senza volto e senza nome parlano i gesti e gli sguardi delle centinaia di persone incontrate in questa meravigliosa avventura in cui la motivazione, qualunque essa sia, rappresenta l’indiscusso motore di tutti quei passi. 

Uno dopo l’altro. Esattamente 454.020 passi.

Sono partita dal primo in quel di Leon e sono arrivata all'ultimo, davanti alla cattedrale di Santiago, sciogliendomi in un pianto liberatorio durato per ore.

Ho seguito il ritmo del mio corpo senza volermi adattare a quello degli altri ed ho imparato che ogni cosa ha l’inizio e la fine che noi vogliamo dargli: l’esistenza e gli eventi ad essa correlati accelerano o rallentano a seconda del nostro desiderio di ricerca e del grado di messa in circolo della nostra energia. La modalità con cui si affronta il primo passo è decisiva: il livello del suo vigore e della sua forza delinea la strada fisica così come quella dei pensieri. Questi ultimi, pian piano, prendono forma e animandosi diventano cose, azioni, ricordi, sensazioni o intuizioni.

Ogni passo è fatica ma anche contemplazione, osservazione e soprattutto creazione di un momento presente irripetibile.

Nel procedere del mio cammino, ho accolto nuovi pezzi di me e ne ho seppelliti altri ricollocandomi in me stessa con maggior equilibrio e consapevolezza. Ho detto un sano addio ai dolori inutili ed ho imparato a far posto a quelli che non mi abbandoneranno mai; ho lasciato vagare la mente sui miei desideri per il futuro e ho respirato la serenità dell’avere fiducia e fede pur non sapendo dove andrò. Ho imparato a camminare sui sentieri di Spagna così come sui fili tesi sopra i precipizi della mia mente e del cuore e mi sono sentita bella come non mai nelle uniche due magliette e pantaloncini di cui mi sono vestita per tutto il periodo. Un ritorno alla semplicità delle abitudini, anche quelle estetiche, mi ha posta in stretto contatto con il mio essere donna al di là degli stereotipi di bellezza a cui mi ero tristemente assuefatta.

La convivialità e la condivisione che ho sperimentato in quei giorni sono stati l’indimenticabile collante di questa esperienza.

Un foglio adesivo tra me e il mondo.

Ho ascoltato e respirato storie, le più diverse tra loro, e le ricordo tutte con dovizia di particolari perché in quel camminare l’ascolto è la prima qualità ad essere chiamata all'appello: ascoltare l’altro è proporzionale a quanta accoglienza riservi a te stesso. L’apertura verso l’altro, se è autentica quella che concedi al tuo cuore, si trasforma nella magia pura dell’incontro, finalmente scevro dagli ingombri dell’egocentrismo e dell’apparenza.

Lungo il cammino incontri cuori sofferenti celati dietro sorrisi che sgorgano naturalmente assieme ad altri che invece paiono più speranzosi ed entusiasti. Ho ascoltato pianti, sorrisi, lamenti e racconti fantasiosi al limite del credibile, ho visto gente di tutte le età procedere sola o accompagnata, ho mangiato con reduci da altri cammini non portati a termine oppure ripercorsi per il solo piacere di respirare nuovamente quel tempo di lentezza e bellezza.

Ho visto coppie anziane intimamente vicine, altre si sono formate accomunate dalla sete della scoperta e altre ancora si sono promesse l’eternità sotto quel cielo.

E gli amori che, in quei sentieri, hanno gettato i loro semi? Sin dove arriveranno?

Torno a casa con la festa nel cuore, una piena consapevolezza di me e qualche mattone in meno sulle spalle, certa che il vero cammino inizi solo ora”


Buoni passi a te, Penelope!


martedì 18 agosto 2015

COME ACQUA

Tornare equivale a sapere che le cose saranno diverse, Penelope.

L’acqua del mare con il suo movimento costante sciacqua via qualche ricordo, le ferite si seccano sotto il sole e le risposte, a cui non hai mai dato ascolto nel frastuono dei giorni pieni di impegni, ora risuonano limpide nella testa e nel cuore.

Si torna ripuliti dalle scorie dell’inutile e dalle mille scuse.

Staccare la spina da tutto e tutti per qualche giorno rappresenta un lusso, un privilegio assoluto se vissuto come l’occasione per riequilibrare mente, corpo e spirito. Rientrare dopo un periodo di vacanza rigenerante è sempre un’esperienza eccitante quasi al pari del pre-partenza: si riapre la porta di casa ben disposti ad a sentirne nuovamente l’odore e il calore, come se ci entrassimo per la prima volta. Ci si sente grati per possedere una casa, proprio quella, e si riassapora quell'avvolgente senso di accoglienza varcandone la soglia, come fosse un abbraccio.

Ed è da un abbraccio che riparto.

Quello con Kinne, una senegalese conosciuta sulla spiaggia e "intrecciatrice" di capelli, come ce ne sono tante sul lungo mare. Una donna che mi abbraccia commossa per la mia partenza, dopo aver condiviso spezzoni di racconti reciproci, e mi regala qualcosa di suo: una bellissima collana di legno colorata. Questo dono mi imbarazza e penso che dovrei io, semmai, fare un regalo a lei. Invece no, è lei a farlo a me. Ma il donare non ha attinenza con ciò che possiedi concretamente.

  - Questo lavoro è peggio che fare la badante. Qui hai sempre la sensazione di disturbare la gente. Credimi, non è bello!
 - Lo immagino Kinne. Ma anche fare la badante deve essere un lavoro duro ed estenuante.
  - Si, ma meno. Lì sei tu che dai, non devi chiedere.

Una senegalese sulla spiaggia mi insegna l’importante lezione del dare e, come sempre, la vita insite a più riprese concetto assicurandosi che tu l'abbia fatti tuo. Mi capita tra le mani un libro di un certo W. W. Dyer, famosissimo in America e in tutto il mondo per la sua opera divulgativa in materia di self-improvement e crescita spirituale.

L’autore in questo libro insiste su una semplice verità: per evitare di vivere una vita a metà, fatta di scuse che ne impediscono la vera realizzazione, è importante assumersi la piena responsabilità di ogni cosa che ci capiti. Il fine è aderire al proprio vero io che è spirito puro lasciando da parte l’ego, un impostore condizionato dall'avere e dall'apparire, nella cui trappola siamo in molti a cadere.
Egli elenca in maniera dettagliata ed esauriente una serie di principi da cui non ci si può esimere per condurre una vita davvero in linea con il nostro vero essere e l’ultimo di questi sette assiomi è proprio quella che lui chiama compassione.

Attiriamo a noi non ciò che vogliamo ma ciò che siamo, dice lui, per cui dare all'altro ciò di cui necessita in quel momento, creare in lui gioia regalandogli qualcosa di nostro che sia un oggetto, del tempo, attenzioni o semplici parole è sinonimo di vivere davvero l’amore e quindi attirarlo a noi con forza.

Grazie Kinne per lo scambio umano di questi giorni e la lezione di umanità che hai dato a me e ai miei figli. Per dare non è necessario essere ricchi o possidenti basta essere aperti all'altro e vederlo nella sua essenza, liberi dai pregiudizi imposti dall'ego.

Consapevolezza, capacità di vivere il presente, contemplazione e gratitudine sono state le mie compagne di viaggio in questi giorni di distacco dal mondo, Penelope.

Ho riscoperto, tra le altre cose, la bellezza e la natura primaria del mio essere madre, finalmente libera dagli odiosi vincoli degli orari e degli impegni quotidiani. Vivendo con i miei ragazzi, osservandoli e ascoltandoli attentamente ho compreso quanto sia sacro il compito a cui sono stata chiamata nella vita; crescere un figlio è un enorme privilegio oltre ad essere una questione molto seria.

Mostrami il tuo Telemaco, amica dei mari! Ha il tuo sorriso e crescendo somiglia sempre più al padre oppure no? Parlami di lui. E tu che madre sei? Lo lasci libero di essere o lo vincoli inconsapevolmente al tuo vissuto?

Qualche anno fa scrivevo questo rispetto al mio essere diventata madre:

Diventare madre mi ha regalato per la prima volta la primitiva e violenta sensazione del mio essere femmina. E’ stato in sala parto che ho percepito nettamente di appartenere ad un genere privilegiato, cui non avrei abdicato nemmeno in cambio di una riduzione del dolore. Ricordo che il ginecologo, al momento del mio primo e complicato parto, dopo ore di intenso travaglio ha sentenziato:
-          
    Questo è uno di quei momenti in cui ringrazio Dio di essere nato uomo!

Mettere al mondo un figlio è dolore puro che ti strazia e ti sfinisce benché odori di vita ma è anche la via che conduce al fulcro della nostra natura, al tempio sacro dell’essere. Non so se esista un tale corrispettivo nell'universo maschile.

Mia madre mi racconta sempre che sono nata con gli occhi spalancati e aperti e li ho fissati nei loro non appena mi hanno depositata sul ventre di lei, ancora caldo. Ho imparato a credere che un bambino nasca veramente in quel momento, a parto già concluso, quando quello sguardo viene dolcemente ricambiato con sussurri e dolci parole di benvenuto e d’accoglienza ".

Oggi affermo con certezza che in quell’istante la nascita non è solo del figlio ma anche di colei che lo mette al mondo. Ho smesso di sentirmi figlia nell'istante in cui è nato il mio bambino e si è fatta strada in me la consapevolezza di due nuove nature visceralmente unite: la donna e la madre.

Da quando il mio primo bambino è nato e, ancor di più con l’arrivo di mia figlia, ho percepito il mio corpo e la mia anima cambiare inesorabilmente. Una metamorfosi ineluttabile di cui i bambini sono stati inconsapevoli fautori insieme alla loro genitrice. Loro mi hanno obbligata ad entrare in quei meandri che non avevo mai esplorato per viltà e pigrizia; loro sono stati la chiave di apertura di serrature chiuse e arrugginite dal tempo e dalla superficialità del mio non essere di allora. La maternità è un viatico verso il tuo vero essere.

Oggi dico solo grazie alla vita per avermi chiamata a svolgere questo importante compito che ben riassume il tema del dare e nel quale trovo parti fondamentali del mio vivere.

L’amore Penelope. L’amore, me lo sono ricordata in questi giorni, è elargire, contemplare, ascoltare, accogliere anche là dove non si comprende e dove ci si sente feriti sempre e inevitabilmente dalle stesse frecce che provocano dolori antichi.

L’acqua, Penelope, voglio essere come lei. Essere aperta e poter fluire ovunque, lieve e gentile come lo scorrere di un piccolo ruscello, impetuosa e potente come un’onda dell’oceano ma voglio circolare, defluire, filtrare. 

Nessuna, più di te, può comprendere.